Scrivere è un atto politico (anche quando parli di sentimenti)

Una donna che legge un libro dirompente

C’è chi pensa che la letteratura serva a distrarsi, a staccare la spina, a regalare un paio d’ore di evasione. Niente di male, certo. Ma ridurre la scrittura a semplice intrattenimento significa amputarla della sua parte più viva: quella che urla, provoca, mette in discussione.

La scrittura come resistenza

Ogni volta che uno scrittore o una scrittrice decide di raccontare ciò che la società preferirebbe nascondere — la violenza, l’emarginazione, la rabbia, la disperazione — compie un gesto politico. Non servono manifesti né comizi: basta la forza di una frase che scardina un tabù.

Pensiamo a Elsa Morante con La Storia: raccontare le miserie dei vinti, dei dimenticati, era già una dichiarazione di guerra a una narrazione ufficiale troppo comoda. Oppure a Virginie Despentes con King Kong Theory, che ha fatto saltare in aria l’idea di “femminile” così come ce l’avevano servita.

Quando anche l’amore diventa sovversivo

Persino parlare di amore, se lo fai senza zuccheri aggiunti, è un gesto politico. Raccontare relazioni tossiche, desideri non conformi, amori che non rientrano nello stampino imposto dalla società significa prendere posizione. Significa dire: “Non mi adeguo, io racconto ciò che vedo”.

Scrivere è prendere parte

Scrivere è scegliere da che parte stare. Anche quando sembra solo una storia personale, anche quando credi di parlare “solo di te”. Perché ogni storia porta con sé un’eco collettiva.

E allora sì, la letteratura può essere intrattenimento. Ma è soprattutto resistenza, lotta, ribellione.

📌E tu, quando leggi, preferisci i romanzi che ti cullano o quelli che ti prendono a schiaffi? Scrivimelo: la letteratura è un campo di battaglia e tu sei già dentro.