Ci sono libri che ti si piantano dentro e restano lì, come un sussurro che non smette mai di farsi sentire. Amabili resti di Alice Sebold è uno di quei libri: una storia che scava nelle viscere, che parla di dolore, perdita, lutto, ma anche di amore, memoria e legami che resistono oltre la morte.
Era inevitabile che un romanzo così potente finisse per attrarre il cinema, e infatti nel 2009 Peter Jackson – sì, proprio quello del Signore degli Anelli – ne ha firmato la trasposizione. Ma cosa succede quando un libro che vive soprattutto di silenzi, introspezioni e voci interiori viene portato sul grande schermo?
Dal libro allo schermo: due linguaggi a confronto
Il romanzo di Sebold è narrato in prima persona da Susie Salmon, una ragazzina di 14 anni brutalmente assassinata. La sua voce ci guida dall’aldilà, raccontandoci non solo ciò che è accaduto a lei, ma anche la vita che continua senza di lei: la sua famiglia distrutta, il dolore del padre, l’impotenza della madre, la rabbia della sorella, e il mondo che – inesorabile – va avanti.
Jackson, invece, decide di dare un volto e un colore all’aldilà immaginato da Susie. E qui il film prende una piega visiva molto diversa dal libro: i paesaggi onirici, saturi di effetti digitali, diventano una sorta di grande installazione estetica che non sempre riesce a restituire la delicatezza e l’intensità del romanzo.
I punti di forza del film
Nonostante le critiche, il film ha i suoi momenti di grande potenza:
La prova di Saoirse Ronan: allora giovanissima, regge il film con uno sguardo che buca lo schermo. È lei l’anima che tiene insieme la storia.
La tensione del thriller: Jackson spinge sul lato “crime”, soprattutto nelle sequenze che riguardano l’assassino. Qui la regia diventa precisa, disturbante, efficace.
La rappresentazione del dolore familiare: Mark Wahlberg e Rachel Weisz nei panni dei genitori restituiscono bene lo smarrimento e la devastazione di una perdita irreparabile.
Le criticità
Il problema principale del film è lo stesso che hanno molte trasposizioni: il libro era troppo interiore, troppo radicato nella voce di Susie, per reggere a pieno il passaggio al cinema.
Le visioni ultraterrene rischiano di apparire kitsch, un po’ troppo “videoclip” rispetto all’intimità dolorosa del romanzo.
Alcuni personaggi secondari finiscono in secondo piano, mentre nel libro avevano un ruolo fondamentale per comprendere le dinamiche della famiglia e il senso della memoria.
La dimensione spirituale viene tradotta in estetica, a volte a scapito dell’emozione.
Perché vale comunque la pena vederlo
Nonostante le differenze, il film resta un tassello interessante: ci mostra cosa succede quando un libro che vive di parole e introspezioni deve farsi immagine. Non lo sostituisce, non lo eguaglia, ma ci offre uno sguardo diverso.
E poi, diciamolo: se dopo aver visto il film ti viene voglia di tornare al libro, allora la trasposizione ha comunque fatto il suo lavoro.
📌 Tu cosa ne pensi? Sei tra chi si è emozionato davanti agli effetti visivi di Jackson o tra chi avrebbe preferito meno CGI e più verità nuda e cruda?